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martedì 16 aprile 2024

Gli Occhiali d’Oro di Giorgio Bassani

Sono tanti i motivi per cui vale la pena leggere un libro di Giorgio Bassani: uno di questi è certamente la lingua, il lessico forbito d’altri tempi che ci aiuta ad arricchire il nostro vocabolario con parole non ancora desuete, ma comunque sperdute in quest’epoca in cui la lingua che utilizziamo è spesso spiccia ed usata in modo scorretto. Un altro motivo è il contesto in cui si svolge la storia, con quelle atmosfere che ancora portano con sé il fascino della Belle Époque e che ancora non sono state sporcate dalle famigerate leggi razziali. Fondamentale per me è anche la sensibilità dell’autore che ci introduce a personaggi meravigliosi come Athos Fadigati. 
Sembra pazzesco, ma in questo periodo storico in cui “crediamo” di aver abbattuto le barriere del pregiudizio, le vicende del dottor Fadigati risultano comunque attuali: il povero dottore si presta quasi con gioia a subire le angherie del suo carnefice, pur di farlo contento; se è vero che al giorno d’oggi non si riderebbe della presunta omosessualità di qualcuno, e probabilmente neppure ci si farebbe molto caso, è pur vero però che anche oggi come allora, la società disprezza e rifiuta chi si lascia calpestare. Ancora oggi vincono coloro che, senza scrupoli, usano la loro avvenenza ed il loro fascino per schiacciare chi invece si mostra buono, onesto e sensibile con tutti.
Ancora oggi vincono i narcisisti. 
Quanto l’animo umano possa ridursi alla grettezza più bieca, non è l’unico tema affrontato in questo romanzo. Anche qui, come in altri libri di Bassani, si tocca un argomento spinoso che è giusto non dimenticare: quello dell’ “israelita” che vede avanzare lentamente la propria rovina dopo che il Duce ha stretto alleanza con la Germania nazista. Ed ecco quindi che una città in pieno fermento culturale, con famiglie nelle quali e tra le quali si discorre di arte, poesia e letteratura classica o talvolta anche di politica (con rammarico di chi preferirebbe solo argomenti culturali) sulla spiaggia così come all’ora di pranzo, ecco quindi che questa città così ricca su ogni piano si trova di colpo divisa. Gli “amici” non si preoccupano di ferire chi è in una posizione più scomoda, e ci si volta le spalle gli uni con gli altri senza quasi rendersene conto.
Una chicca: verso la fine del libro si cita anche la famiglia Finzi-Contini già protagonista di un altro romanzo di Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini appunto, che avevo avuto il piacere di leggere durante l’università per un esame di Letteratura Italiana.
Vi segnalo inoltre il film con lo stesso titolo di questo libro, Gli Occhiali d’Oro, con protagonista il bravissimo Philippe Noiret, che ricordo di aver apprezzato enormemente, nonostante, ve lo confesso, avessi deciso di guardare il film solo perché da ragazza ero super innamorata di Rupert Everett (complice la mia mania per Dylan Dog).
Ed anche questa volta il mio consiglio è: leggetelo! 
Au revoir, mes amis! ;-)







giovedì 11 aprile 2024

Solo bagaglio a mano di Gabriele Romagnoli

Non mi aspettavo di leggere ciò che ho appena finito di leggere. Mi piace comprare i libri in base al titolo o alla copertina, senza avere la minima idea di cosa parlino; stessa cosa faccio con i film. E Solo bagaglio a mano di Gabriele Romagnoli mi ha lasciata a bocca aperta dal momento in cui l’ho iniziato: mai più mi sarei immaginata l’argomento trattato. Non è un romanzo, non è un saggio. Sono semplici considerazioni sulla vita. 
Romagnoli è scrittore e giornalista, estremamente bravo a scrivere e parecchio coinvolgente, ed altrettanto incredibilmente bravo nel ricordarsi notizie e fatti di cronaca, di cui ci sono svariati esempi in questo libro. 
Per anni ho letto Vanity Fair, e la prima cosa che facevo appena lo compravo, era andare a cercare i suoi articoli, perché riusciva sempre a stupirmi e a farmi ridere, nonostante gli intenti non fossero propriamente comici, ma sottilmente ironici. E mi fa ancora questo effetto. Ho l’abitudine di leggere al bar. E con questo libro è stato un disastro. Ci sono state frasi per cui non ho potuto reprimere una fragorosa risata, e mi sono subito guardata intorno, con un lieve imbarazzo, per vedere chi se ne fosse accorto. E un paio di pagine dopo, mentre l’autore rievoca fatti di cronaca nera che non conoscevo o a cui non pensavo da tempo, non ho potuto trattenere le lacrime, e di nuovo mi sono guardata attorno. Eppure Gabriele Romagnoli li racconta con una tale semplicità ed onestà che fa ancora più male leggerli.
Vi starete forse chiedendo a che pro Romagnoli citi queste vecchie notizie da telegiornale: lo fa per spiegare meglio queste sue considerazioni sulla vita di cui vi parlavo prima, che altro non sono che un inno all’essenzialità.
Questo libro ci fa riflettere su chi e su cosa è veramente importante e necessario portare con noi nel viaggio della nostra vita, e serve sicuramente ai molti di noi che, sebbene si vestano ormai senza fronzoli e non soffrano più di shopping compulsivo, ancora non riescono a liberarsi delle zavorre accumulate negli anni, di quegli oggetti inutili che teniamo per ricordo (ma ricordo di che? non ci basta la nostra memoria?), come le bomboniere o le agendine regalateci dai rappresentanti e mai utilizzate e che forse ci torneranno utili in futuro (e quando? quando si ripresenterà l’anno in corso con esattamente le stesse date?). Zavorre sono anche tutte quelle foto e quelle informazioni di cui riempiamo le nostre memorie digitali, quando ci basterebbero i ricordi che abbiamo nel cuore e nella mente. Zavorre sono anche le persone che chiamano amici, ma che in realtà sono solo conoscenze, perché i veri amici sono meno delle dita di una mano. Questo è ciò che ci insegna Gabriele Romagnoli con il suo libro, senza la pretesa di diventare un guru od un santone, lui che di certo non è interessato a nessun tipo di spiritualismo e non sembra quindi avere tali velleità. Ed è un libro che capita sempre nel momento giusto, per apprezzare ciò che si ha anziché disperarsi per ciò che non si ha, per saper lasciare andare quegli “amici” o quegli “amori” che tali non erano e saperci circondare solo di quelle poche persone che ci vogliono davvero e che davvero meritano le nostre attenzioni e la nostra presenza. E presenza è sicuramente un concetto chiave di queste considerazioni. Vivere in presenza. O meglio vivere nel presente. Sbarazzandosi dell’ingombrante bagaglio del passato e delle aspettative ansiogene del futuro. E ci tengo a sottolineare che non ho fatto citazioni dal libro né ho riguardato le pagine con le frasi che più mi hanno colpita, perché ho preferito affidarmi alla memoria, così come consiglia Romagnoli.
E di Romagnoli invece non voglio proprio disfarmi, quindi continuerò imperterrita a leggere i suoi libri. Magari chissà, troverò il coraggio di buttarli dopo averli letti, ma di sicuro mi resteranno nel cuore e nella memoria.
Au revoir, mes amis ;-)









domenica 7 aprile 2024

L’oceano in fondo al sentiero di Neil Gaiman

Quanto mi piacciono i romanzi dark fantasy di Neil Gaiman. Per me L’oceano in fondo al sentiero  rappresenta un “ritorno al passato”, dato che American Gods, di cui vi avevo parlato un paio di mesi fa, ha delle tinte più crude e molto diverse da tutti i libri che di lui avevo letto fino a quel momento. 
Amo profondamente tutto ciò che scrive Neil Gaiman, per come sa raccontare, in maniera fluida e snella, episodi fiabeschi, dai tratti gotici e talvolta quasi horror, che ci fanno venir voglia di rintanarci sotto le coperte dei nostri letti per evitare che i mostri cattivi ci mangino.

Neil Gaiman riempie tutto questo di poesia, di magia primordiale e sparge qua e là profonde verità, come quando in L’oceano in fondo al sentiero ci ricorda che “è quello il problema con gli esseri viventi, che non durano a lungo. Oggi sono micetti, domani gatti vecchi. Dopodomani solo ricordi. E i ricordi sbiadiscono, si imbrogliano, si confondono…” Oppure come quando, in questo stesso romanzo, Lettie Hempstock svela sia a noi sia al protagonista (di cui non sappiamo il nome) che “nemmeno gli adulti, dentro, hanno l'aspetto degli adulti. Fuori sono grandi e grossi, sventati e sicuri di sé. Dentro, invece, hanno l'aspetto di sempre, quello che avevano alla tua età. La verità è che gli adulti non esistono. Non ce n'è nemmeno uno in tutto il mondo”. 
Con L’oceano in fondo al sentiero Gaiman torna dunque alle atmosfere inquietanti eppure meravigliose dei vari Coraline, Nessundove e Il figlio del cimitero, in cui i protagonisti si trovano per puro caso invischiati in situazioni inspiegabili e decisamente più grandi di loro, e da cui usciranno grazie all’aiuto di esseri fantastici (nel senso proprio di magici, e che si distinguono in particolare per i loro immensi cuori d’oro), affrontando i tipici mostri che affollavano gli incubi della nostra infanzia, e che talvolta hanno intenzioni realmente malvagie, altre volte invece sono solo goffi e capricciosi come i bambini stessi.
Sebbene il protagonista sia un bambino di sette anni, non è un libro per bambini, ma anzi, come ci confida l’autore negli Extras dell’edizione Mondadori: “A un certo punto ho capito che non volevo scrivere quel libro per i bambini; volevo scriverlo per chiunque avesse mai avuto sette anni”.
Ed anche qui, come nel mio amatissimo Il figlio del cimitero, non ho potuto non innamorarmi perdutamente della piccola “streghetta” Hempstock. Se chiedete il mio parere, la sua presenza è già un motivo più che valido per tuffarsi immediatamente tra le pagine di questo sogno (o forse incubo?) ad occhi aperti.
Au revoir, mes amis ;-)







domenica 31 marzo 2024

Lo squalificato di Dazai Osamu


Il dolore che si prova leggendo queste pagine è incommensurabile. Un disagio, una stretta al cuore, un pugno allo stomaco reiterato. Ho dovuto intervallarne la lettura con una serie di racconti decisamente più ameni, perché in certi momenti non riuscivo a sopportare tutto questo malessere e mi sentivo affaticata. È un romanzo brevissimo, ma denso di avvenimenti e di riflessioni che rattristano, perché anche a noi lettori sono spesso sorti pensieri di questo tipo, quali la sfiducia nel prossimo e nell’intera società. Fortunatamente nella mia vita non ho incontrato molte persone come Oba Yozo, io narrante di questa “autobiografia”, nonché evidente alter ego dello stesso Dazai. Ma non nascondo che mi sono successi episodi imbarazzanti simili a quelli del protagonista, che mi hanno segnata a vita, e che io stessa mi sono ritrovata, fin da ragazzina, nella condizione di trasformarmi in buffone, o come mi è sempre piaciuto pensare, in giullare di corte, per nascondere la mia timidezza e la mia asocialità, di cui tanto mi vergognavo. Ed è proprio la vergogna il leitmotiv che porta Yozo a diventare “un essere umano squalificato. In effetti, ormai non ero neanche più un essere umano”. Questo annichilimento cominciato fin dalla più tenera infanzia, lo porterà in un mondo torbido, un mondo fatto, a suo stesso dire, di alcol, fumo, prostitute, banco dei pegni e idee di estrema sinistra: “un miscuglio ben strano, ma questi sono i fatti”. Un uomo spaventato sì dalla società, ma anche dalla felicità. Un uomo che distrugge, o meglio, sporca tutto ciò che tocca. Un uomo che affascina, quasi perseguitato da stuoli di donne, pur non facendo nulla per conquistarle, e anzi, quasi evitandole. Un uomo incapace di dire “no”, ai famigliari, agli amici, alle amanti (che lo diventano persino quando non le vuole): ed in questa incapacità a dire “no” mi ci sono riconosciuta davvero tanto. 
La lampante conclusione a cui alla fine giunge Yozo è che tutto passa, “banalmente, tutto passa”. 
Non possiamo che dargli ragione.
E fin da subito ho odiato il padre di questo ragazzino incompreso, per cui sarebbe bastato un minimo di interesse e di affetto in più, e sarebbe cresciuto diversamente, senza aborrire il lusso da cui proveniva, per poi vergognarsi e sentirsi in colpa per aver disprezzato la fortuna che aveva. Ma mi hanno infine consolata le parole di madame, che sembra avermi letta nel pensiero (o forse è il contrario): “la colpa è tutta di suo padre, […] Lo Yozo che noi tutti conoscevamo era sincero e sensibile, se solo non beveva… Anzi, anche quando beveva era buono come un angelo”.
Ora, appena finito di leggere, ho il cuore a pezzi, eppure sto già pensando di leggere molte altre storie di questo maestro della letteratura giapponese. Perché sì, lui si rifugiava nell’abuso di alcol e sostanze, io preferisco nascondere la faccia nei libri, sorseggiando una tisana o un ginseng. E voi, se anche voi fate parte della immensa schiera di persone terrorizzate dal mondo, che metodo utilizzate per sfuggirgli? Scrivetemi in privato o qui sotto nei commenti :-D
Au revoir, mes amis! ;-) 










martedì 26 marzo 2024

Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro



Mi piacciono i romanzi scritti in prima persona. Ci si identifica facilmente con i pensieri del protagonista che spesso, chissà perché, sono anche i nostri. È stato semplice capire alla perfezione i sentimenti di Kath, personaggio principale di Non lasciarmi. Credo che chiunque potrebbe immedesimarsi nei suoi detti e non detti, nel suo sentirsi mortalmente ferita da banalissime frasi pronunciate nel modo sbagliato, e che, a ripensarci più tardi, a freddo, ci si accorge che non erano poi così offensive. La bravura di Ishiguro nel dipingere caratteri così profondamente umani è notevole. Aveva ragione la mia collega ed amica a consigliarmi di leggere i suoi romanzi, per la delicatezza con cui tratta argomenti per niente facili, come la sofferenza che aleggia soprattutto in alcuni reparti ospedalieri, o il sesso, che potrebbe risultare imbarazzante sia vissuto da ragazzini e sia, perché no, molte volte anche da adulti. Eppure, nonostante la mia eccessiva empatia verso ciò che vedo nei film, leggo nei libri e persino quando ascolto le notizie del telegiornale, sono riuscita a non piangere (a parte, ebbene sì, lo ammetto, un unico frangente in tutto il libro) e, a discapito della mia educazione da ragazza per bene degli anni Ottanta, non sono rimasta minimamente infastidita dalle volte in cui si parla apertamente di sesso e di come lo affrontino gli studenti di questo misterioso istituto. E tutto questo è merito, come vi dicevo, della delicatezza dell’autore.
Fin dalla prima pagina c’è però qualcosa che non torna: Kath è un’assistente che si prende cura di “donatori”, che non sembrano essere in gran forma. Chi sono questi donatori? E perché lei se ne occupa prendendosi così a cuore le loro situazioni? Ishiguro ci tiene col fiato sospeso ad ogni pagina. Si vuole andare avanti per saperne sempre di più, per capire cosa sta succedendo. Sembra tutto così strano… 
Kath ci parla di sé, della sua vita, delle sue esperienze, dividendo la storia in tre parti: la sua spensierata infanzia nella scuola di Hailsham; la sua adolescenza con i normali turbamenti dell’età, turbamenti non solo sessuali o amorosi, ma vissuti nei più svariati ambiti; la vita da adulta, con il suo lavoro e la sua solitudine interiore.
Tutti noi abbiamo provato almeno una volta ciò che ha sofferto Kath: ad esempio il vedersi sminuiti dall’amico/a che ci ritorce contro le confidenze che gli/le abbiamo fatto solo per autoincensarsi e sentirsi migliore di noi, e che ci fa sentire sbagliati solo perché talvolta siamo preda delle nostre emozioni o perché proviamo pulsioni più che naturali per un essere umano. Fortunatamente però, anche nelle nostre vite reali, così come in questo romanzo, capita poi d’incontrare anche chi ci spiega che invece è tutto normale (“Immagino che succeda a tutti, e dovrebbero ammetterlo con se stessi, se fossero onesti. Non penso che ci sia niente di diverso in te…”). Grazie Ishiguro, che attraverso Kath ci insegni che non abbiamo nulla di cui vergognarci, anche se ci assalgono piccoli pensieri di vendetta, che tanto non attueremmo mai. 
È ammirevole la resilienza, almeno per gran parte del racconto, di due personaggi principali che non lottano contro il destino, ma lo accettano abbastanza serenamente. Ma proprio in virtù del fatto che questo autore sa rappresentare così bene le sfumature dell’animo umano, non mancheranno i momenti di rammarico per ciò che non si è fatto o si è fatto troppo tardi. E chi di noi non li ha mai avuti? Fortunatamente non mi appartengono molto, mi capitano ovviamente, ma so tirarmene fuori in fretta, e mi piacerebbe dire a questi studenti una frase di Blade Runner che tanto mi è cara (lo so, non perdo occasione di citarlo :-):
“ I didn’t know how long we had together… who does?” (Non sapevo quanto tempo ci restasse da passare insieme…ma del resto chi lo sa?)
Se avete visto Blade Runner o se leggerete Non lasciarmi, immagino capirete.
A proposito di film! Sono curiosissima di vedere il film con Carey Mulligan, Keira Knightley e Andrew Garfield che hanno tratto da questo meraviglioso libro.
E con questa chicca nonché indiscutibile perla di saggezza tratta da Blade Runner, vi saluto e vi do appuntamento alla prossima recensione :-)
Au revoir, mes amis! ;-)





giovedì 14 marzo 2024

Cronache marziane di Ray Bradbury

Se penso a Cronache marziane, penso ad una lunga poesia che mi ha incantata fin dalle primissime righe: episodi sparsi, tenuti insieme da un unico filo conduttore, ovvero il mito di Marte, scritti con un linguaggio estremamente aulico, ricco di immagini suggestive, che spesso quasi commuovono. Marte è il pianeta rosso per eccellenza, ma in questi racconti si fa riferimento a vari colori, tra cui il bruno, il dorato, l’azzurro agata. Ed è per questo che guardando questa foto che ho scattato dalla finestra di casa mia, sogno il pianeta immaginato da Bradbury, che sicuramente non corrisponde alla realtà.


Non sarà facile scrivere questa recensione, ci sono così tante cose de dire che mi servirebbe lo spazio di un saggio accademico, e soprattutto vi toglierei il gusto della sorpresa che mi ha colto ad ogni pagina. 
Ho letto questo libro nella nuova edizione Mondadori del 2020, tradotta meravigliosamente da Veronica Raimo, con una puntualissima postfazione di Tristan Garcia, che in una manciata di pagine riesce a racchiudere l’essenza di questo viaggio interplanetario. Ma soprattutto in questa edizione è presente un’introduzione di Bradbury stesso che, pur non volendolo ostentare, non può far altro che mostrare il fascino e la simpatia che sicuramente caratterizzavano la sua persona. E così ci racconta che un grande scrittore visionario come Aldous Huxley lo aveva definito “poeta” ed aveva pienamente ragione, perché in queste Cronache marziane si respira poesia a pieni polmoni, e ad ogni pagina mi sentivo sempre più innamorata: di Marte, della civiltà marziana, dell’atmosfera magica del pianeta, di Ylla (il mio cuore si è spezzato insieme al suo e non ho nemmeno avuto la forza di piangere, ma solo voglia di rannicchiarmi con lo sguardo fisso nel vuoto), mi sono innamorata dell’idea del capitano Nathaniel York, dell’integrità e dell’intensa spiritualità di Spender (che tanto mi ha fatto soffrire), della genialità crudele di Stendahl che mi ha lasciata sgomenta e piena di orrore.
Bradbury era uomo di immensa cultura e in quest’opera cita persino dei famosissimi versi di una poesia di Ben Jonson (non lo si dice nelle note, quindi se non li riconoscete nel testo, chiedete a me ;-), fa più volte riferimento a Lord Byron, e a maestri quali Edgar Allan Poe, Lewis Carrol e Lovecraft. E se Ray Bradbury resta Ray Bradbury, non poteva mancare un episodio in cui si paventa, e ovviamente si condanna, una futura ed ipotetica censura (o peggio ancora distruzione) dei libri, soprattutto di quelli con soggetti fantasiosi, assolutamente distanti dalla realtà.
Questo libro mi ha riempito il cuore. Mi ha commossa, mi ha fatto riflettere, mi ha emozionata e spaventata.
Ma attenzione: non è un libro di fantascienza. È lo stesso Bradbury a precisarlo nell’introduzione. Cronache marziane parla di mito puro, di quei miti che ci facevano rimanere a bocca aperta e sognare per ore ed ore quando eravamo bambini.
Anche se l’autore non lo considerava un libro di fantascienza, una domanda mi sorge spontanea: Philip K. Dick l’aveva letto prima di scrivere il suo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Secondo me la risposta è sì…
Il mio consiglio? Lo sapete già: LEGGETELO e abbandonatevi totalmente a fantasticare sulla culla o sul futuro, o su entrambi, chissà, dell’umanità.
Au revoir, mes amis! ;-)





mercoledì 28 febbraio 2024

Il Racconto dell’Ancella

Elettrizzata. Commossa. Soddisfatta. Sono i tre aggettivi che mi balzano in mente ora che ho appena terminato I Testamenti di Margaret Atwood. 
I Testamenti è il seguito del Racconto dell’Ancella, un romanzo distopico che tratta però temi sempre attuali, come la sottomissione della donna e la progressiva perdita di dignità dell’essere umano nei regimi totalitari. 
Ho letto Il Racconto dell’Ancella tutto d’un fiato all’inizio di quest’anno e l’ho trovato illuminante: nel suo ipotizzare un futuro tipicamente orwelliano, mostra la natura umana per quella che realmente è, senza falsi tabù o pregiudizi, e ci spinge a guardarci dentro, rendendoci dei giudici un po’ meno severi di noi stessi. È una storia forte, a tratti decisamente cruda, raccontata da un’ancella, ovvero una donna utilizzata solo a scopi di procreazione, da comandanti le cui mogli sono risultate sterili. 
Le ancelle e quasi tutte le altre donne a Gilead non hanno il permesso di leggere o scrivere, persino le insegne dei negozi non hanno scritte, ma solo disegni. Ma soprattutto ogni donna deve vestirsi ed atteggiarsi in modo da non provocare gli uomini, che notoriamente s’infiammano alla sola vista di una caviglia…
Questo non è certamente il pensiero della Atwood, che persino nei ringraziamenti finali dei Testamenti, cita il suo compagno di vita, Graeme Gibson, suo “partner in tante strane e meravigliose avventure da quasi cinquant’anni”.
La Atwood non condanna né gli uomini né le donne, ma semmai la brama di potere che spinge alcuni esseri umani a comportarsi nei modi più biechi. Non condanna nemmeno chi si trova ad essere dalla parte dei carnefici, perché tutti hanno le loro motivazioni, come ad esempio la sopravvivenza e il non riuscire più a sopportare le torture più barbare e crudeli che si possono immaginare.
Non consiglierei questi libri a dei giovani lettori, che potrebbero sentirsi disturbati dai temi trattati, ma soprattutto perché non avrebbero ancora alle spalle un vissuto tale che li induca a guardarsi dentro con la dovuta profondità. Ammetto che il secondo libro, scritto circa trentacinque anni dopo Il Racconto d’Ancella, risulta più delicato. Ciò che mi ha entusiasmato è stato l’alternarsi di ben tre testimonianze, raccontate da tre donne con tre funzioni diverse a Gilead, testimonianze che sciolgono tutti i nodi del primo libro; in particolare mi ha colpito il mio simpatizzare con una tipologia di persona che non avevo assolutamente gradito nel Racconto dell’Ancella.
Un consiglio: se avete intenzione di guardare la serie tv con Elisabeth Moss, Joseph Fiennes, Yvonne Strahovski e Alexis Bledel, fatelo solo dopo aver letto i libri, perché già dalla prima puntata si spoilerano un paio di informazioni che si evincono solo alla fine del primo libro.
Entusiasta di questi due romanzi e pronta a leggerne molti altri della stessa autrice, vi saluto, dandovi il consueto appuntamento alla nostra prossima recensione.
Au revoir, mes amis! ;-)